E’ un periodo strano quello che stiamo vivendo. Le emozioni, che da sempre guidano le nostre azioni, hanno assunto una tonalità buia fino alla notte più scura. Stiamo vivendo una forma di oppressione: ci sentiamo soli, abbandonati, impauriti. Sembra che la vita si sia fermata in perenne attesa di un ritorno a come eravamo. La paura è che tutto ciò che stiamo vivendo oggi, diventi la normalità domani.
Ritorneranno i nostri incontri, le uscite, le chiacchiere leggere? Ritorneremo a parlare guardandoci negli occhi senza il terrore di essere impestati? Il nostro spirito di animale sociale che ha bisogno di parlare, confrontarsi, condividere, sta soffrendo. Gli scambi virtuali che ci aiutano in questo periodo ad andare avanti, ci lasciano un costante senso di vuoto e di incompletezza.
La domanda che ci poniamo continuamente è: fino a quando?
Già…. fino a quando?
Tanti, troppi di noi non stanno lavorando da più di un anno: cercano di andare avanti in qualche modo senza una entrata stabile, chiedendo supporto a chiunque possa aiutare, sperando un giorno di ritornare a vedere la luce. Rispetto al passato la rabbia non sfocia bensì è calmierata da una quieta rassegnazione.
A questa parte del nostro prossimo che è ferma, immobile, rassegnata al proprio destino, si contrappongono gli altri, quelli “fortunati”, che in questo periodo non fanno altro che lavorare, costantemente concentrati sul tutto si fa e mai si obietta. Per costoro, un mezzo per vivere è diventato la propria ragione di vita: sempre davanti ad uno schermo, senza fermarsi mai, con i pensieri costantemente avvitati su quello che si deve fare. I presunti capi, responsabili, “leaders” da cui dipendono, li spingono a dare sempre di più: non avendo anch’essi più una vita al di fuori del lavoro (alcuni probabilmente non l’hanno mai avuta), scaricano le frustrazioni della solitudine, della monotonia su quelli che dipendono da loro, chiedendo sempre di più, urlando la perfezione: la maschera per coprire le loro frustrazioni e insicurezze.
L’effetto di tutto ciò? Nervosismo, ansia, depressione. Allontanati da se stessi, dagli amici, dai propri cari, dai colleghi, senza qualcuno con cui sfogarsi, confrontarsi, condividere, molti di noi hanno finito per identificarsi con il loro lavoro e qualsiasi ingerenza in questo ambito viene percepita come un attacco diretto alla propria identità. Lo schermo del computer non aiuta a distinguere tra ciò che procura da vivere e la vita reale!
Non potendo rispondere alla domanda fino a quando, forse si può cercare di rispondere all’altra domanda che preoccupa molti di noi: si continuerà a vivere così una volta che tutto sarà finito?
Ho paura di sì!
Ho la netta sensazione che questa crisi non stia facendo altro che accelerare un processo che era già in corsa. La mia sicurezza si basa sulla semplice osservazione di come il lavoro sia cambiato in questi anni. Stranamente quando ho cominciato a rifletterci, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata il ricordo di mio padre negli anni 70/80.
Mio padre era un dipendente pubblico o, come dice Checco Zalone, un dipendente con il posto fisso. Negli anni 70/80 lavorava solo la mattina dal lunedì al sabato. Iniziava alle 08.00, terminava alle 14.00 e il pomeriggio era completamente libero di dedicarsi alla sua vita: la vita reale fatta di istanti con la famiglia, con gli amici, con i colleghi e perché no…. con se stesso. Erano quelli i tempi in cui il lavoro era un mezzo per vivere. Ma cosa è successo dopo?
Inizialmente è stato introdotto il lavoro pomeridiano con la consolazione che almeno si poteva riposare sabato e domenica. Si è guadagnata una mattina perdendo tutti i pomeriggi di libertà. Questo è stato solo l’inizio poiché qualche anno dopo è arrivata la rivoluzione industriale 3.0: internet con i suoi computer e, subito dopo, gli smartphone. Conseguenza? Abbiamo perso completamente la nostra libertà!
Due sono i messaggi che internet ci grida in faccia ogni giorno: il primo è “non puoi sfuggirmi, so dove sei”, il secondo “non puoi sconnetterti, non te lo permetto”. Non è forse vero che ormai siamo costantemente connessi, sempre online, pronti a rispondere in tempo reale? Abbiamo perso il concetto del domani, dobbiamo farlo subito; l’urgenza è diventata lo sfondo invisibile delle nostre vite poiché se non lo facciamo ora, le conseguenze potrebbero essere irreparabili. Dobbiamo finalizzare quel documento immediatamente, rispondere alla email, al messaggio, alla chat in tempo reale e appena lo facciamo stranamente arriva qualcos’altro da fare.
Se non ricordo male, prima di questa pandemia, un po’ di libertà c’era ancora rimasta: il caffè durante la giornata con il collega, la birra con l’amico, la palestra, la partita di tennis. La pandemia purtroppo ci ha tolto anche queste piccoli momenti di libertà facendoci diventare ormai parte di una catena di montaggio continua dove non sono più ammessi i tempi morti. Abbiamo nuovamente aumentato la produttività eliminando quel poco di tempo libero che c’era rimasto.
Lo so, lo so cosa state pensando: appena finisce questo periodo tornerò alla mia vita precedente. Anzi farò almeno un mese di vacanza, mi ubriacherò di libertà….
Ne siete convinti? Siete sicuri che non continueremo a vivere così? Cosa vi fa pensare che le aziende accetteranno di tornare allo stile pre pandemia? Quante compagnie soprattutto legate all’automazione e all’informatica (i cosiddetti driver del futuro) hanno avuto un aumento di produttività in questo periodo? Quante aziende hanno beneficiato di un taglio notevole dei costi? Siete proprio sicuri che queste aziende saranno disposte a rinunciare alla triade: aumento di produttività, diminuzione dei costi, personale annichilito della propria vita, annullato di raziocinio e concentrato esclusivamente sul lavoro? Non è forse questa è la rivoluzione industriale 4.0?
Ci stavamo arrivando piano piano, ma una bella accelerazione causa pandemia era proprio quello che ci voleva, nel momento in cui ci voleva. Finalmente siamo diventati anche noi delle macchine, degli automi: non più essere umani devoti alla socialità e proprietari della propria vita, ma ingranaggi di una apparato concentrato solo sul produrre. Pensate che tutto questo sia solo una coincidenza? Nessuno vede il trend? Siamo partiti dal mondo di mio padre in cui il lavoro doveva farci vivere, siamo arrivati ad un mondo in cui vivere vuol dire lavorare.
Il problema è che ormai non riusciamo più neanche a vedere la manipolazione che sta dietro tutto questo: stare tutto il giorno davanti ad uno schermo ci ha tolto lo spazio e il tempo per pensare, creare le nostre opinioni e confrontaci. Siamo diventati dei robot che producono, consumano e non pensano. E anche se qualcuno di noi ha ancora un pensiero da esprimere, tende a non mostrarlo, rinuncia ad obiettare: troppo grande la paura dell’instabilità, il timore di non essere più necessari, il terrore che come gli ingranaggi, si possa essere sostituiti da un giorno all’altro. E quindi produciamo, diciamo sempre di sì, non ci lamentiamo mai anche se ci è stato tolto anche quel poco di tempo libero che era rimasto.
Il nostro tempo libero fa paura… pensare fa paura. Pensare è l’espressione della nostra anima e noi non siamo autorizzati ad avere un’anima: dobbiamo diventare macchine. Chi pensa può generare opinioni invece di subirle, si può ribellare agli schemi e noi come i robot abbiamo delle schede predefinite da usare. E non fa niente se stiamo male, se soffriamo, se siamo depressi, se siamo stressati perché tanto abbiamo i farmaci per andare avanti, per accettare il surrogato chimico della nostra realtà. L’importante è produrre e consumare!
Vi ricordate, prima della pandemia, quando si faceva un break durante il lavoro per prendere un caffè con un collega? Quel piccolo spazio di tempo era fondamentale per noi: era la nostra valvola di sfogo, l’occasione per staccare, confrontarsi con qualcuno, farsi due risate e perché no… lamentarsi dell’azienda o del capo vomitando un po’ di frustrazione. Quanti di voi avvertono la mancanza di quel piccolo intervallo? Tutti immagino. Tutti tranne che le aziende! Per le aziende quello era solo tempo perso. Provate solo a fare un calcolo immaginando quante pause del genere venivano fatte ogni giorno e fatevi una idea di quanto tempo perso le aziende abbiano guadagnato con questa pandemia. Ma non vi rendete conto che non stacchiamo più? Siamo sempre davanti lo schermo; sono sicuro che molti di noi addirittura pranzano in compagnia del computer. E questo non è un aumento vertiginoso di produttività? Una volta guadagnato, ci rinuncereste?
La domanda a questo punto è: cosa fare?
Ricominciare a fermarsi! Riprendersi i propri spazi senza gli schermi che ci vogliono incollati per “suggerirci” cosa è meglio per noi. Pretendere quei pochi minuti di libertà durante la giornata, tra una riunione e l’altra, tra un impegno e il successivo dove niente e nessuno ci può controllare o dirci cosa fare o pensare. Scollarsi dai monitor per non essere più ricettori inconsapevoli del così fan gli altri e così devi fare anche tu. Strappare con le unghie quei dei piccoli intervalli di libertà in cui potersi ascoltare, confrontare e ricostruire così la propria identità; dimenticandosi, per quei pochi minuti, degli obblighi che sono sempre di più e sempre più frequenti. Non mi prolungo oltre, ulteriori dettagli li lascio alla vostra libera interpretazione; l’importante è che questo articolo vi aiuti a diventare consapevoli della vostra schiavitù per ritornare ad essere di nuovo padrone di voi stessi!
Nel mio romanzo “Bravo…continua così” c’è una piccola strofa che recita: “E’ quando spezzi una catena che ti rendi conto di quanto sia preziosa la libertà. Libero da paure e pregiudizi, da pensieri ed emozioni, dal passato e dal futuro. Libero di essere. Il primo secondo di una catena spezzata è il primo secondo di una nuova libertà!”