A volte mi chiedo dove sono finiti i miei anni, quelli di cui non ho nessuna traccia in memoria, quelli in cui nulla è sembrato accadere se non la quotidianità attraverso cui sono passato senza alcun segno se non le mie rughe.
Ogni giorno questa realtà che chiamiamo vita passa tra paure e doveri senza lasciare nulla se non qualche segno sul mio corpo. A volte penso di essere l’unico ad avvertire l’inutilità di questo tempo sprecato, giorni interi senza un minimo cenno di bellezza che si possa imprimere sullo sfondo di un’anima che resta in attesa di essere nutrita. Tutto quello che possiedo nutre il mio fisico, ma non i miei sentimenti perché i sentimenti non sono importanti. Non devo sentire, devo produrre e consumare per mandare avanti questo mondo dell’effimero in cui altri come me hanno bisogno di consumare quello che io produco. Tutto ciò che può nutrire le emozioni è inutile, non fa business, non alza il Pil, al limite alza la consapevolezza e la consapevolezza è meglio lasciarla a dieta altrimenti potrebbe volere di più e quel di più potrebbe abbassare il Pil. Un cricolo virtuoso.
Eppure basterebbe ricordare che nel momento in cui viviamo, cresciamo in noi la morte e allora se la fine di tutto deve crescere e prendere il sopravvento perché sbattersi? Tanto la morte non la possiamo escludere dalle nostre vite. Già perché? Perché produciamo continuamente, trascurando noi stessi, sapendo che tutto dovrà finire? Non varrebbe la pena vivere senza la sofferenza aggiunta che giornalmente ci procuriamo senza rendercene conto?
Avete mai incontrato qualcuno che non fa parte del nostro mondo, quel mondo che chiamiamo “reale”, quello delle nostre città e che si trova anche per una sola giornata a vivere la nostra quotidianità? Il suo sguardo è sperduto, i suoi occhi sono appannati, si interroga su come centinaia di milioni di suoi simili possano vivere tutto ciò che per lui rappresenta una dimensione senza vita. Gli occhi sembrano scollegati dal suo centro, privati della meraviglia e della bellezza.
Avete notato invece il nostro sguardo, quello di noi “normali” quando siamo fuori dalla nostra quotidianità anche per una sola giornata? Una semplice giornata in montagna, al mare, in campagna è sufficiente affinché quel cordone ombelicale tra il mondo esterno ed il centro della nostra vita si riattivi, iniziando a pompare linfa ancestrale che riaccende gioia, creatività, sane passioni. In quella dimensione “irreale”, ritorniamo nudi, non abbiamo maschere da indossare, nessuno a cui piacere, nessuno che ci possa giudicare. Ritorniamo al nostro stato adolescenziale quando ancora ci sorprendevamo, quando ancora potevamo essere noi stessi senza paura di mostrarlo. Siamo coscienti di quel benessere, ma non ci facciamo sedurre e giustifichiamo il tutto dicendo a noi stessi che quella non è la vita reale, che abbiamo bisogno dei centri commerciali, del traffico, del sushi perché così funziona il mondo. Quella dimensione è solo una favola che ormai non esiste più e che si può vivere al massimo durante il weekend. Se la vivessimo più a lungo alla fine ci annoieremmo. Siamo abituati alla frenesia, al cosa devo fare dopo e dopo e dopo. Adesso è solo il passaggio per il dopo.
Ma è sempre stato così? No, non è sempre stato così!
E allora quando è cambiato tutto? Quando siamo diventati pieni di paure? Quando abbiamo perso la spontaneità? Quando abbiamo capito che dovevamo allinearci e nasconderci per non rischiare di essere esclusi, di non piacere, di non guadagnare, di non vivere come gli altri; insomma di essere diversi?
Nessuno riuscirà a rispondere a queste domande perché non esiste un momento preciso quando tutto è cambiato. Se ci fosse stato un momento preciso ci saremmo accorti del declino irrevocabile che abbiamo intrapreso. E’ stato invece un percorso lento, una caduta al rallentatore. I grandi cambiamenti avvengono spesso senza accorgersene. Abbiamo ancora di fronte a noi l’immagine di quella ragazza che rideva dietro un banco di scuola con il suo sorriso pieno di speranze, di aspettative e non capiamo come sia diventata adesso una donna piena di paure, di insicurezze; come sia diventata tutto quello che non avrebbe mai voluto essere. Vestirsi, parlare, uscire, obbedire per piacere a tutti tranne che a se stessi. Perché noi non ci piacciamo, noi siamo quelli che ci guardiamo allo specchio la mattina per controllare l’involucro mentre il ragazzino con le sue speranze disattese è dentro e si nasconde.
C’è un modo di farlo uscire di nuovo?
No, non c’è modo. Quel ragazzino non uscirà più, preferirà soffrire, accelerare la venuta della morte piuttosto che cambiare il suo modo di vivere, ammesso che tutto ciò si possa chiamare vita. La sua paura non può essere più sconfitta, tutto il mondo esterno agirà perché continui ad averla, per alimentare le sue convinzioni limitanti. Fa troppo comodo che sia così e lottare contro è una battaglia impari. La paura serve a manipolarlo, serve per continuare a farlo produrre e consumare, serve per mantenere l’infrastruttura. Perciò rinunciate alla sofferenza, all’inganno che forse c’è ancora una possibilità; ormai è troppo tardi e la speranza è meglio ucciderla per non continuare a soffrire.
Per i nostri ragazzi, la nostra progenie, però non è troppo tardi. Siamo ancora in tempo: c’è tempo e non bisogna perderne ancora. Quel coraggio che non basta a noi per cambiare, è tutto quello che ci serve per supportarli, per accettarne la diversità, per incoraggiarne l’individualità. E se li accettiamo noi, non c’è dubbio, sì… non c’è dubbio che avranno quella forza di combattere una società che farà di tutto per renderli standard e allineati. Loro potrebbero essere gli artefici di quel cambiamento che noi abbiamo definitivamente perso.
E’ troppo tardi per noi per cambiare il mondo, ma possiamo supportare la crescita di qualcun altro, ancora non contaminato, per farlo al posto nostro.